Tra miti e leggende

Il web ci fornisce  una quantità di notizie praticamente illimitate ed è proprio girovagando un po’ che si scopre che la nostra terra è ricca di miti e leggende che le danno quel tocco di mistero in più ed instillano in chi legge una sempre maggiore curiosità e chissà, magari anche la voglia di recarsi di persona in questi luoghi magici...



Il mito di Ligea



Produzioni letterarie antiche, prima fra tutte l’Odissea, narrano delle tre sirene Partenope, Leucosia e Ligea impegnate con il loro canto ad attirare le navi in transito e a farle naufragare. Ulisse, avvertito, non cadde nel tranello e riuscì a resistere al canto delle sirene legato all’albero maestro della propria nave e con i marinai resi sordi dai “tappi” che aveva fatto loro mettere alle orecchie.
Secondo la leggenda Ligea, la più piccola delle sirene, come le sue consorelle, subì un tragico destino. Vide sua sorella Partenope lanciarsi giù dalla rupe, bellissima come l’aveva sempre ricordata. Ed era così persino in quel momento, mentre il corpo della sirena, volava a velocità folle contro gli scogli che affioravano dal mare. Ligea urlò, presa dal terrore. Ancora tremante trovò il coraggio di affacciarsi. La spuma bianca del mare era tinta di sfumature vermiglie, mentre le onde lambivano il corpo senza vita e la lunga pinna argentata di quella che una volta era stata sua sorella, la sirena Partenope. La nave di Ulisse si allontanava all’ orizzonte, mentre l’aria riecheggiava ancora delle urla di quell’ uomo legato all’ albero, ossesso, invasato. Poi la giovane sirena sentì un tuffo. Si voltò: sua sorella Leucosia era scomparsa nel mare. Poco distante la sua code emerse solo per un flebile momento, prima di inabissarsi per sempre, prima di allontanarsi chissà dove. Per Partenope fu la rabbia, la frustrazione del fallimento. Per Ligea fu invece l’oppressivo senso di solitudine che la pervase all’ improvviso, potente come colpo sferrato con ferocia e cattiveria. Non resistette nemmeno lei. Un’intera vita condannata a sentirsi sola, senza le sue amate sorella. E fu così che la sirena Ligea prese la stessa decisione di sua sorella Partenope.
Ligea attese ancora qualche giorno. Aspettò che il mare scatenasse la sua furia, in una di quelle spaventose tempeste che negli anni lei aveva imparato e temere. Il cielo era grigio e terribile come un tiranno di piombo, mentre le onde del mare erano muri d’acqua che si abbattevano sugli scogli. Quello che era stato il suo mondo sarebbe stato anche la sua tomba. La sirena si lasciò cadere nel mare. Si abbandonò completamente a esso. Lasciò che fossero i flutti a decidere della sua vita.
Considerate originariamente geni della morte, le sirene, erano considerate figlie di Forci e di Ceto. La leggenda dice che, compagne di giochi di Persefone, per non averla salvata dal rapimento da parte di Plutone, Demetra la madre, le trasformò in sirene.
Ligea è una figura della mitologia dell’antica Grecia e di Roma. Nell’arte greca, fin dal periodo arcaico, fu raffigurata con busto di donna dalle braccia nude e con corpo di uccello con coda e ampie ali. Compare in statue isolate e in rilievi ad ornamento di tombe, generalmente in atto di suonare la cetra, oppure in vasi dipinti, mosaici, pitture, sarcofagi romani. Ligea è, inoltre, raffigurata in varie monete di Terina: in alcune è seduta su un cippo mentre gioca con una palla lanciata con la mano destra, in altre riempie un’anfora con l’acqua che esce dalla bocca di un leone.
“O viandante, se vorrai conoscere il percorso della sirena Ligea che sarà spinta dai flutti a Terina…I Faleri la seppelliranno nelle arene del lido contiguo ai vortici dell’Ocinaro dove era anche il sepolcro del Marte dalle corna di bue, dovrai attraversare la Via Traiana, raggiungere Terina dal Golfo Terineo o Lametino…”Gli abitanti di Terina furono dispersi da Annibale nel 203 a.C., ma la vera fine di Terina fu opera dei Saraceni nel 950 circa, che, distruggendo Lamezia (oggi Sant’Eufemia) e Aiello, distrussero Terina che si trovava tra queste due. L’interrogativo sull’esatta individuazione di Terina, città della Magna Grecia, fondata dai Crotoniati nel corso del VI secolo a. C., rimane ancora senza risposta e solo dopo che sarà trovata sarà anche possibile trovare il monumento sepolcrale eretto a Ligea.
Il corpo senza vita della sirena arrivò al Golfo di Sant’Eufemia. Il corpo senza vita di Ligea fu raccolto dai pescatori alla foce del fiume Okinaros. E divenne la loro protettrice.Su una piccola isola formata da materiale ghiaioso trasportato durante le alluvioni fu eretto un gran monumento a suo ricordo. Si ipotizza che l’Okinaros altro non fosse che il fiume Bagni, la cui foce a quell’ epoca molto frastagliata era circondata da una vegetazione molto fitta.

Conoscenza comune e leggenda vogliono che le sirene sostino sempre in prossimità dei capi e dei promontori, i quali sono già di per sé un pericolo per la navigazione e sono spesso segnalati da un faro, il che fa pensare che possa essersi spiaggiata nella località di Capo Suvero, zona in cui io stessa sono cresciuta durante le mie estati.


Nella Piazzetta S. Domenico, a Nicastro (oggi Lamezia Terme), hanno inaugurato una statua, opera dell’artista  Dalisi, dedicata alla sirena Ligea.



Dattilo Valentina.




La Leggenda di Mata e Grifone



Mata e Grifone sono due giganti fantocci di cartapesta che, nei secoli sono state accostate a varie figure mitologiche: Crono e Rea (ovvero, nella tradizione latina, Saturno e Cibele), Cam e Rea, Zanclo e Rea, infine Mata e Grifone.

Le versioni del mito di Mata e Grifone sono diverse, alcune narrano che il gigantesco guerriero e la regina bianca rappresentino i veri fondatori di Messina, mentre altre ritengono che siano i prigionieri musulmani fatti dal condottiero Ruggero D’Altavilla nel 1086.



La costruzione di queste statue è attribuita al fiorentino Martino Montanini, allievo del Montorsoli, su incarico del Senato di Messina intorno al 1550.

 
Mata, su un destriero bianco (un tempo nero), simboleggia l’elemento indigeno; la tradizione la vuole nativa di Camaro, antico quartiere cittadino sull’omonimo torrente. La statua presenta sul capo una corona con tre torri (forse le torri dell’antico castello di Matagrifone), oltre che ramoscelli e fiori; dalle orecchie le pendono orecchini d’oro. Indossa una corazza di colore azzurro con ricami in oro sopra una veste bianca che le copre le ginocchia; porta ai piedi calzari con stringhe intrecciate. Sulle spalle un mantello di velluto blu.








giganti2



Zanclo (Grifone), che cavalca uno stallone nero (un tempo bianco), ha una bellissima testa di moro, incoronata con foglie di lauro e ornata da orecchini a mezzaluna. Indossa una corazza sopra una corta tunica bianca bordata in oro. Nella mano destra impugna una mazza di metallo, con la sinistra tiene le redini e al braccio ha uno scudo ovale al cui interno vi sono raffigurate tre torri nere su sfondo verde.


Porta al fianco una bella spada la cui elsa è ornata da una testa di leone e da due teste di uccelli rapaci. Sulle sue spalle, un mantello di velluto rosso.









La più accreditata delle leggende si riferisce al 964, quando Messina era l’ultimo baluardo siciliano che resisteva all’occupazione araba. Un generale invasore di nome Hassas Ibn-Hammar, durante l’assedio alla città, vide la bella Mata figlia di un commerciante messinese, innamoratosene costrinse con la forza il padre a dargliela in sposa. Le mille attenzioni del saraceno non furono sufficienti a far innamorare la candida fanciulla, solo la sua conversione al cristianesimo riuscirono ad intenerirne il cuore. Il nome di Hassan diventò Grifo ribattezzato Grifone per la sua mole. I due innamorati prosperarono e vissero felici e contenti. Nella realtà invece, la loro nascita è da collocarsi intorno alla fine del XVI secolo, in un momento in cui si era di nuovo inasprita la rivalità tra Messina e Palermo, su quale delle due dovesse ricoprire il ruolo di capitale. Nel 1591 Filippo II ordinò che il Vicere risiedesse a Messina per 18 mesi ogni triennio. In questi anni le due città facevano a gara nell’esibire titoli e privilegi che potessero far prevalere l’una su l’altra. Nel 1547 in contrada Maredolce, a Palermo furono rinvenute delle ossa gigantesche, probabili resti dell’antica fauna che aveva popolato l’Isola in epoca preistorica (elefanti nani e ippopotami). Questo ritrovamento fece asserire ai Palermitani che la loro città era stata fondata da “Giganti”, quindi in epoca assai remota, e ciò le arrecava un maggior prestigio rispetto alla città dello Stretto. Forse fu per reazione a queste pretese che il Senato di Messina ordinò la costruzione delle due statue.

L’adozione dell’usanza in Calabria

I Giganti, quali simbolo di libertà, vennero ben presto adottati in molte città siciliane e da alcune della fascia costiera tirrenica ed aspromontana della Calabria che, come Messina, avevano profondamente subito le devastazioni saracene e turche. Mentre nel tempo scomparvero a Reggio Calabria ed in altri centri, sopravvivono ancora oggi a Tropea, Ricadi,Spilinga, Dasà, Zambrone, Brognaturo, Cittanova, Seminara e appunto Palmi.

L’adozione dei Giganti a Palmi, oltre che per i motivi suddetti, avvenne anche e soprattutto per ricordare l’evento storico legato alla presenza in città del conte Ruggero I . Fu infatti da Palmi che l’armata normanna si radunò per muovere alla conquista della Sicilia: «Raunato adunque il Conte l’esercito di mille, e settecento tra Fanti, e Cavalieri, a Palme inviossi, e per Mare, poscia in Reggio; dove riposato quindeci giorni, con ventisei Galee, e Brigantini, tragittossi i Messina.»

Per ricordare il condottiero normanno, durante la “sfilata dei Giganti” di Palmi partecipa anche un finto cavallo di cartapesta, mentre in altri centri è presente un cammello quale simbolo dei saraceni.

La coppia di Giganti di proprietà della “Congrega di Maria Santissima Immacolata e San Rocco”, realizzata nel 1885, è un’opera dei locali fratelli artigiani Virgilio e Francesco Cicala.


Maria Claudia Leone

La fata Morgana


La leggenda racconta che, nelle giornate di cielo sereno e mare piatto, la Fata Morgana si affacci dalle acque dello Stretto di Messina e faccia rimbalzare tre sassi sulla distesa azzurra. Allora sul mare appaiono fantastiche figure di uomini e palazzi, una vista incantata tanto nitida da sembrare vera. In realtà, il mito della Fata Morgana consiste in un fenomeno visivo che avrebbe poco di magia e sortilegio e che si verifica, in particolari condizioni atmosferiche, su molte rive del pianeta. Si tratta di un'illusione ottica dovuta ad un'inversione di temperatura negli strati bassi dell'atmosfera, quelli che sono a contatto con il mare. Se l'acqua è piatta, soprattutto nelle prime ore del mattino, quando il cielo è più terso, a causa della diversa densità dell'aria, dalla sponda è possibile vedere le immagini della città costiera riflesse e persino moltiplicate dal mare, trasformato in un immenso specchio. Eppure, nonostante le cause scientifiche del fenomeno, in Calabria e Sicilia la magica città sulle acque, unica al mondo perché visibile da due diverse sponde, Reggio e Messina, è tramandata da secoli come "Il Castello della Fata Morgana".

Le leggende sul miraggio “Fata Morgana” sono moltissime, ma le più diffuse sono due. Secondo la prima, che deriva dalla fantasia dei poeti che hanno descritto e tentato di spiegare questo fenomeno, la fata Morgana (nome di origine bretone che significa «fata delle acque») ha per dimora le fantastiche costruzioni ricche di torri che sembrano materializzarsi agli occhi di chi assiste al miraggio.
La seconda, invece, è una leggenda ampiamente diffusa in tutta l'area dello Stretto: durante le invasioni barbariche, in agosto, un re barbaro giunto a Reggio Calabria vedendo all'orizzonte la Sicilia si domandò come raggiungerla, quando una donna molto bella (la Fata Morgana) fece apparire l'isola a due passi dal re conquistatore che si gettò in acqua, convinto di potervi arrivare con un paio di bracciate, ma l'incanto si ruppe e lui morì affogato.
Il fenomeno ha inoltre ispirato il noto testo dell'Olandese volante, che secondo la leggenda evoca la storia di una nave fantasma che non può mai ritornare a casa e per questo è destinata a solcare i mari per sempre. L'Olandese volante è di solito descritto come visto da lontano ed a volte come incandescente con la luce spettrale. Si ritiene che una delle possibili spiegazioni dell'origine di questa leggenda sia proprio un fenomeno di un miraggio (Fata Morgana) visto in mare.
Questo raro fenomeno è stato osservato in diverse zone:
  •       sullo Stretto di Messina, dove è storicamente noto;
  •   sul Gargano, in Provincia di Foggia, osservando le Isole Tremiti in particolari condizioni di luce;[senza fonte]
  •       in altri laghi e litorali del Sud Italia, a Mazara del Vallo (Trapani) si vede abbastanza spesso;
  •         nel Deserto del Mojave, negli Stati Uniti d'America;
  •         al largo dell'Isola Victoria in Canada;
  •      nella regione dei grandi laghi negli Stati Uniti d'America, dove il fenomeno è stato osservato, oltre che in estate, anche in autunno e primavera;
  •         sullo Stretto di Gibilterra;
  •        in Irlanda;
  •         in Norvegia.

Dattilo Valentina.



Scilla e Cariddi

Scilla - foto di Dattilo Marisa

Omero - Odissea, XII, 112 e sgg.

"Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par che un guaiolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino a un dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo,
Dodici ha piedi, anteriori tutti,
Sei lunghissimi colli e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara di ogni dente.
Con la metà di se nell'incavo
Speco profondo ella s'attuffa , e fuori
Sporge le teste, riguardando, intorno,
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di Que' mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.
Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poichè, quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola"

Secondo la versione più comune, Scilla è figlia del dio marino Forco (o Forcide) e di Ceto. Secondo la tradizione riportata dall’Odissea, invece, è figlia di una dea, chiamata Crateide.
Altre leggende la dicono nata da Forbate e da Ecate, oppure da quest’ultima e Forco. La si considerava anche figlia di Tifone ed Echidna, oppure di Zeus e di Lamia; in questo caso, fu l’unica figlia ad essere risparmiata dalle ire della gelosa Era.
All’inizio Scilla era una ninfa ed era solita recarsi sulla spiaggia di Zancle e fare il bagno nell’acqua del mare. Una sera, vicino alla spiaggia, vide apparire dalle onde Glauco, figlio di Poseidone, che un tempo era stato un mortale, ma oramai era un dio marino metà uomo e metà pesce. Scilla, terrorizzata alla sua vista, si rifugiò sulla vetta di un monte che sorgeva vicino alla spiaggia. Il dio, vista la reazione della ninfa, iniziò ad urlarle il suo amore, ma Scilla fuggì lasciandolo solo nel suo dolore. Allora Glauco si recò all’isola di Eea dalla maga Circe e le chiese un filtro d’amore per far innamorare la ninfa di lui, ma Circe, desiderando il dio per sé, gli propose di unirsi a lei. Glauco si rifiutò di tradire il suo amore per Scilla e Circe, furiosa per essere stata respinta al posto di una mortale, volle vendicarsi. Quando Glauco se ne fu andato, preparò una pozione malefica e si recò presso la spiaggia di Zancle, versò il filtro in mare e ritornò alla sua dimora. Quando Scilla arrivò e s'immerse in acqua per fare un bagno, vide crescere intorno a sé delle mostruose teste di cani. Spaventata fuggì dall’acqua ma si accorse che i cani erano attaccati alle sue gambe con un collo serpentino. Si rese conto allora che sino al bacino era ancora una ninfa ma al posto delle gambe spuntavano sei musi feroci di cane che le rimasero sempre attaccati dilaniando tutto ciò che transitava nei paraggi.. Per l'orrore Scilla si gettò in mare e andò a vivere nella cavità di uno scoglio della Calabria, che da lei prese il nome. Pianse Glauco la sorte toccata a Scilla e per sempre rimase innamorato dell'immagine di grazia e dolcezza che la ninfa un tempo rappresentava.

Cariddi in principio era una naiade, figlia di Poseidone e Gea, dedita alle rapine e famosa per la sua voracità. Un giorno rubò ad Eracle i buoi di Gerione e ne mangiò alcuni. Allora Zeus la fulminò facendola cadere in mare, dove la mutò in un gigantesco mostro simile ad una lampreda, che formava un vortice marino con la sua immensa bocca, capace di inghiottire le navi di passaggio.
La leggenda la situa presso uno dei due lati dello stretto di Messina, di fronte all'antro del mostro Scilla.
Le navi che imboccavano lo stretto erano costrette a passare vicino ad uno dei due mostri.
In quel tratto di mare i vortici sono causati dall'incontro delle correnti marine, ma non sono di entità rilevanti.
Secondo il mito, gli Argonauti riuscirono a scampare al pericolo, rappresentato dai due mostri, perché guidati da Teti madre di Achille, una delle Nereidi.

Cariddi è menzionata anche nel canto XII dell'Odissea di Omero, in cui si narra che Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo.


Dattilo Valentina.


La pietra del diavolo


Il Santo giunto da Enna scelse il monte che sovrasta la cittadina di Palmi, il Sant’Elia, per sottoporsi ad una severa penitenza e per fondare un monastero. Si costruì una piccola cella fra le rocce, nella quale si rifugiava per pregare felice per la sua povera condizione. Anche il cibo era povero e costituito maggiormente da bacche, cardi ed erbe selvatiche, ma la sua anima si rafforzava sempre di più. Invidioso, un uomo dal volto nero, con un gran sacco sulle spalle, si presentò al Santo Elia, che se ne stava in solitaria meditazione. L’uomo, che era il diavolo, aprì il sacco e mostrò al Santo una grande quantità di monete.
Raccontò che aveva trovato l’ingente fortuna in un casolare abbandonato e pensava di poterla dividere col Santo, il quale, invece, prese le monete e cominciò a lanciarle lungo la china: mentre rotolavano si tramutavano in pietre nere, di quelle che ancora oggi si possono reperire sul monte. Così il diavolo lo tentò nuovamente, questa volta con una ricca tavola imbandita, ma il santo non cedette, così si travestì da bellissima ragazza, ma il Santo Elia non si lasciò beffare e lo respinse verso il precipizio.
Contrariato, il diavolo balzò in piedi, ma, all’improvviso, alle sue spalle si aprirono due grandi ali nere di pipistrello, con le quali egli si alzò in volo, sarebbero così rimaste le impronte delle due unghie sulla pietra. Planò sul mare e vi si tuffò sprofondando.
Le acque gorgogliarono e schiumarono, si innalzò una nuvolaglia e, quando questa si fu dileguata, ecco che sul mare si delineò un’isola a forma di cono, dalla cui sommità incavata uscivano lingue di fuoco e fumo: era lo Stromboli col demonio imprigionato che soffiava fiamme e tuoni.

Lo Stromboli nei giorni particolarmente belli e chiari ci offre una vista magnifica sia di giorno, che al tramonto.


Nessun commento:

Posta un commento